La relazione tra Intelligenza Artificiale, in particolare gli A.D.I. (assistenti digitali intelligenti) e Persone, nello specifico nel contesto organizzativo (H.A.I. Agility), è fonte aperta di studio e discussione, con risvolti e vantaggi ancora tutti da scoprire.
Non basta infatti limitarsi a utilizzare uno dei tanti strumenti di AI generativa per farsi aiutare nella creazione di report, documentazione o rispondere ad una serie di interrogativi, perché questo può ridursi ad un mero esercizio per rendere più veloce il proprio lavoro, perdendo il contributo fondamentale dell’”essere umani”.
In particolare, la riflessione è rivolta alla capacità di contestualizzare le scelte che “algoritmicamente” sembrano più ovvie, andando a riflettere sulle opportunità ma anche sulle ripercussioni relative.
“Recuperiamo tempo” direbbe qualcuno, ma a che pro?
A che serve più tempo se poi non si è in grado di utilizzarlo nel modo opportuno (soggettivamente parlando), indipendentemente se si ragiona da un punto di vista di obiettivi aziendali, sempre più ambiziosi, o da quello del lifebalance?
E anche in quest’ultimo caso, non sembra avere molto senso sfruttare il tempo guadagnato per passare ore su uno dei tanti social network che, per inciso, sfruttano algoritmi di AI per tenere le persone incollate al display di uno smartphone e propinare le “loro verità”.
Insomma, è una discussione che di tecnico ha veramente ben poco, ma che si sposta nel campo antropologico e filosofico, aprendo la porta alla presenza di nuove figure nell’ambito delle organizzazioni, in modo da affrontare adeguatamente riflessioni fondamentali per “restare umani” e non diventare meri esecutori di ordini e decisioni impartite da “macchine”.
Pensando a questo, mi viene spesso in mente la scena del film il “Bisbetico Domato” in cui un goffo ragioniere suggerisce ad Elia, contadino interpretato da Celentano, di sostituire il lavoro manuale di pigiatura dell’uva con una macchina che ottimizza i tempi e riduce i costi.
Alla domanda di Elia: “[…] e le famiglie dei ragazzi che non assumiamo [come sopravvivranno]?” Il ragioniere risponde: “il progresso alle volte è crudele”.
Ecco il punto: una macchina non avrebbe avuto dubbi, l’uomo si!
Meglio restare, sotto questo profilo, “bisbetici indomati”, che “bisbetici domati”.
Il problema è che le nuove tecnologie digitali sono nate, nelle migliori intenzioni, con l’obiettivo di connetterci e unirci, rendendoci una superintelligenza collettiva, ma si stanno trasformando nell’elemento che mai come prima ci sta allontanando e ci sta mediocrizzando.
Un esempio di tutti i giorni? Si pensi alla pratica dello smart-working, almeno nella sua distorta implementazione odierna: si passano ore davanti ad uno schermo a fare “call”. Spesso non si accende neanche più la webcam, facendo palesemente finta di essere attenti ma pensando ad altro.
Quanto valore c’è in tutto ciò? Nessuno, nessun contributo allo sviluppo degli obiettivi organizzativi e nessuna valorizzazione dei contributi basati sull’esperienze ed univocità individuale.
L’AI, nelle sue diverse e molteplici incarnazioni (non solo generativa), deve portare a valorizzare al meglio il potenziale delle persone, ma non può trasforme quest’ultime in “bit informativi”, ovvero persone che fanno da “figuranti” e che eseguono, paradossalmente, gli “ordini digitali” senza nemmeno accorgersene.
Da un punto di vista dell’Intelligent Business Agility, questo significa sfruttare tutte le potenzialità dell’AI, rendendola un “partner digitale, ma, dualmente, rafforzare la propria Smart Leaderhip, umanizzando i suggerimenti algoritmici assumendosi la responsabilità delle decisioni, anche quando esse portano ad operare in modo diametralmente opposto a quanto indicato dall’AI.
Se si analizzano i dati relativi al trend di mercato di un prodotto e ottenere un’indicazione logica di intervento, l’AI probabilmente sarà un compagno insuperabile, se invece, si ha la necessità di ingaggiare un nuovo collaboratore, non è ammissibile che un candidato venga scartato solo perché, durante un colloquio da remoto, un’AI analizza l’ambiente in cui si trova e considera la “foto del gatto” sintomo di inefficienza.
Le grandi innovazioni arrivano solo quando siamo in grado di trovare il giusto mix tra ragione (intelligenza) e emozioni (intelligenza emotiva), e, quest’ultima, non è in dotazione alle macchine.